Di Fabio Massa
Da un anno fa ad oggi i giornali si sono dovuti occupare delle elezioni un bel po’ di volte. Piccola rassegna minima con il rischio di qualche errore: a giugno si è votato per i referendum, a settembre si è votato per il governo e ha vinto la Meloni, il 27 novembre in Campania e Calabria per alcune comunali, il 12 e 13 febbraio per la Lombardia e il Lazio, a metà maggio con ballottaggio oggi per le comunali (anche in quelle regioni dove si votava per le regionali due mesi prima), e al contempo al 28 e 29 maggio c’è anche il primo turno per alcuni comuni della Sicilia e della Sardegna, che andranno al ballottaggio tra un paio di settimane. In 12 mesi, tra primo turno e ballottaggi, regionali, politiche e referendum le urne hanno lavorato 7 volte. Sette volte. A voler ridere si potrebbe dire che in Italia c’è un eccesso di democrazia. E invece, a voler piangere, dovremmo concludere che il problema non è l’eccesso di democrazia, ma di burocrazia, per cui le norme combinate con altre norme fanno sì che ogni scadenza sia appena appena spostata dall’altra. Con danno per i contribuenti (l’election day costa meno), e anche per gli studenti che perdono giorni di scuola. Ma non è finita qui, perché mentre in tutta Italia, ad esempio, i sindaci vengono proclamati al primo turno se arrivano al 50 per cento più uno dei voti, non si sa bene in base a quale pazzia autonomista (per carità: l’autonomia è una cosa buona quando viene usata bene) in Sicilia vengono proclamati già al 40 per cento più uno dei voti. Insomma ognuno fa quando vuole come vuole quel che gli pare. E tutto va bene così.