Gli ultimi giapponesi contro l’Ospedale in Fiera. Commento

C'è ancora chi oggi attacca l'ospedale in Fiera definendolo una cattedrale del deserto. Che ha salvato decine di vite e vaccinato migliaia di persone // di Fabio Massa

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Niente, non ce la possono fare. Da queste parti, su Affaritaliani.it Milano e anche su RadioLombardia, abbiamo sempre difeso a spada tratta l’Ospedale in Fiera. Un Ospedale nato con fondi privati, che – salvo ovviamente chi ci lavora (impossibile fare altrimenti) – non è costato un euro ai contribuenti. E che ha salvato decine di vite umane ed erogato centinaia di migliaia di vaccini. Tanto che ormai l’Ospedale in Fiera è perfettamente inserito nel sistema di contenimento del Covid. I milanesi che pure non ci sono finiti (e per fortuna, solo i più gravi capitavano nella terapia intensiva di Fiera), hanno potuto apprezzarlo come centro vaccinale. E’ un fatto, e anche i giornali più oltranzisti l’hanno capito. Dopo la bufera scatenata ad arte su Regione Lombardia nella prima parte della pandemia, oggi molte cose sono più chiare. E una delle cose chiare è che l’Ospedale in Fiera è una risorsa e come tale viene utilizzata. Al punto che il suo promotore numero uno, ovvero il presidente di Fondazione Fiera Enrico Pazzali, dapprima è stato insignito della Rosa Camuna, ovvero il riconoscimento regionale, e tra qualche giorno prenderà anche l’Ambrogino d’Oro, ovvero il riconoscimento comunale. E in Comune, come è noto, la maggioranza è a trazione centrosinistra. Eppure c’è chi non si arrende. Gli ultimi giapponesi. Come Carmela Rozza, alla quale mi lega una stima personale ma una profonda divergenza sull’Ospedale in Fiera. Ancora oggi, sul Giorno, la consigliera regionale del Pd afferma: alcuni “ospedali saranno loro malgrado costretti a rallentare le prestazioni ordinarie per consentire il funzionamento del reparto della Fiera, un reparto non autonomo, una cattedrale nel deserto”. Una cattedrale nel deserto. Dopo un anno e mezzo siamo ancora fermi là. Più che un deserto a me pare un’isola. Quella dove ci sono ancora (e la Rozza non è l’unica) persone che combattono quando la guerra fortunatamente è finita, perché non aveva nessuna ragione di essere. Almeno su un ospedale pagato da privati per svolgere un servizio per la comunità.

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