Su questa cosa dei giornalisti che vengono accusati di provocare nelle manifestazioni, bisogna che ci mettiamo d’accordo. Su almeno due cosette due. Sono stato nelle manifestazioni decine di volte, e da sempre mi limitavo a registrare i fatti. Anzi, in linea di massima, per far parlare le persone si cerca di entrare in empatia con loro.
Quando scrivevo di nera e dovevo andare a casa di una madre che aveva perso il figlio, magari un figlio poco di buono, magari morto ammazzato a pistolettate per questioni di droga, non è che esordivo dicendo “oh, ma lo sai che tuo figlio se l’è cercata”? Al Giorno mi avevano insegnato che bisogna essere curiali, con le mani giunte, farsi raccontare, pian piano, con la voce bassa. E raccogliere l’intervista e pure la foto del morto. Uguale nelle manifestazioni. Uno registra gli umori, si fa raccontare, con calma.
Fare i giornalisti in manifestazione non vuol dire essere protagonisti dei dibattiti né perculare chi sta sfilando. Detto questo, anche avendo di fronte un giornalista che percula, nessuno si deve permettere di toccarlo. Nessuno vuol dire nessuno. E’ diritto del giornalista raccontare le cose nel modo che vuole. Ritengo che sia meno efficace entrare a gamba tesa, ma non meno legittimo. Nessuno deve toccare i giornalisti (e tutti gli altri, a dir la verità) mentre lavorano. Se i giornalisti si pongono in modo troppo irruento, o preconcetto, basta ignorarli. Non picchiarli.
E’ vero però che le botte le rischi anche se non stai facendo niente, basta solo che vedano il tuo taccuino. Ricordo una manifestazione di tanti anni fa. In una cittadina del sud Milano arrivava Mario Borghezio, allora parlamentare, famoso per certe intemerate che definire vergognose è poco. Mi mandarono a seguire il convegno ben sapendo che sarebbe potuto succedere qualcosa, dentro o fuori la sala conferenze. E in effetti fuori si erano radunati un centinaio di antagonisti a urlare contro Borghezio.
A dirla tutta, vedendo le posizioni di Borghezio quasi quasi avrei manifestato anche io con loro, ma i giornalisti sono sopra le parti e quindi me ne stavo là, con gli antagonisti da una parte e di fronte la polizia schierata in assetto antisommossa. In mezzo una strada chiusa, una sorta di terra di nessuno nella quale stavamo noi giornalisti e fotografi, a far foto e a parlare.
Ricordo distintamente Dax, il cui volto campeggia come simbolo di libertà, scagliarsi contro noi giornalisti urlandoci “venduti e servi”, e noi che riparavamo scappando dietro gli scudi della polizia. La verità è che c’è sempre qualcuno che prova a pestarti, quando stai sul marciapiede, e non conta che sia vaccinato o non vaccinato, di destra o di sinistra, povero o ricco. E anche in ufficio, per quello che scrivi, arrivano botte che non sono fisiche ma fanno molto male. Mi viene da dire che è anormale cercare di picchiare i giornalisti, ma in questa anormalità è normale almeno cercare di schivare le botte che potrebbero arrivarti.
di Fabio Massa
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“E’ diritto del giornalista raccontare le cose nel modo che vuole.”
No. E’ dovere del giornalista raccontare i fatti in maniera il più possibile obiettiva, senza farsi influenzare dalle proprie – legittime – opinioni personali. Una cosa è la cronaca, altra i commenti o gli editoriali.
Purtroppo oggi va di moda il “giornalismo a tesi”: si parte da una tesi predeterminata (“chi critica i provvedimenti del governo in materia di Covid è un novax, complottista, che diffonde bufale, con basso livello di istruzione, violento, ecc.”) e si cercano tutte le prove che la confermano, scartando le evidenze contrarie.
Io sono vaccinato Pfizer, laureato, non mi piace andare alle manifestazioni, eppure sono profondamente critico verso l’operato dei due ultimi governi e disgustato per il livello di conformismo a senso unico raggiunto dai media, non credo che l’uso che si fa del Green Pass sia accettabile, e sono preoccupato per le limitazioni alle libertà fondamentali in atto da quasi 2 anni, perché quando lo Stato ti prende qualcosa difficilmente poi te lo restituisce