C’era una volta Milano.
Non sono un grande fan delle cose “etniche” né delle cose “autoctone”. Cioè, non mi fanno impazzire (anzi, in molti casi li aborro) tutti i ristoranti cinesi, thailandesi, nordafricani, libanesi (ah, i libanesi proprio li odio) e in generale tutti quei ristoranti dove il conto è assolutamente italiano, ma il cibo è roba da gente che muore di fame. Che con tutto il rispetto per quelli che muoiono di fame, quando vado al ristorante mi piacerebbe saziarmi, sennò sto a casa con il pane raffermo e la barba lunga a fare il radical chic che soffre per i destini del mondo. Ecco. Ma non sono un fan neppure delle cose autoctone. Perché mai devo mangiare l’agnello lombardo, ammesso che ci sia, quando la razza scozzese è fantastica? E perché mai devo sbevazzarmi il the prodotto che ne so in alta val Brembana quando in India o in Cina lo fanno meglio? E perché mai devo prendere la salsa barbecue fatta dall’azienda italiana quando ci sono quelle americane d’importazione? Ecco. Detto tutto questo, ma possibile mai che in un posto come la Stazione Centrale dove c’è tradizionalmente una grande tensione razziale, perché ci sono decine e decine di poveri immigrati senza una casa che bighellonano nella piazza antistante. Perché mai proprio là, si è deciso di fare una porta in stile marocchino? Non lo capisco proprio. L’avessero fatta, che ne so, in porta Venezia, non avrei detto nulla e mi sarebbe sembrata una iniziativa lodevole e d’attrazione. Ma proprio in Stazione Centrale pare una provocazione. E a me le provocazioni di quelli che vogliono integrarmi, educarmi, rabbonirmi tra l’altro venendo da storie de sinistra di contestazione farlocca nel 1968, ecco quelle provocazioni proprio non piacciono. Dopodiché, non penso di farmi crescere la barba e digiunare per questo problema, e dunque, non ne parliamo più.